Ci scusiamo in anticipo se la trattazione di un argomento così delicato avverrà in modo così frettoloso.
Questa è la questione bioetica sottesa ad una recente pronuncia della Suprema Corte in un caso ove una coppia citava in giudizio un ginecologo ai fini di una richiesta risarcitoria per mancata informazione sulle indagini prenatali da effettuare o effettuabili e per la conseguente mancata diagnosi di gravi malformazioni del feto.
Difatti il medico non aveva, secondo la coppia, effettuato tutti i necessari esami per scoprire eventuali malformazioni del feto e la coppia è venuta a conoscenza della sindrome di Down di cui era affetta la figlia solo una volta che questa era nata mentre i due avevano già espresso chiaramente al sanitario che avrebbero optato per l’interruzione di gravidanza una simile ipotesi. La mancata informazione del medico e la mancata effettuazione dei dovuti esami aveva quindi leso il diritto di autodeterminazione della donna specificamente e della coppia genericamente.
Il medico aveva solamente informato la coppia che per poter scoprire eventuali malformazioni del feto fosse necessario sottoporsi ad accertamenti invasivi molto costosi e con un alto rischio di aborto.
Secondo il Tribunale di primo grado la pretesa di risarcimento non era fondata e rigettava la questione compensando le spese tra le parti e lo stesso faceva la Corte d’Appello.
In sede di Appello venivano rigettati i motivi di impaginazione perché i Giudici hanno ritenuto che non vi fossero stati errori di natura tecnico professionale imputabili al ginecologo in quanto la mancata diagnosi era dipesa da causa non imputabile al medico e non era possibile dimostrare che la coppia avrebbe optato per l’interruzione della gravidanza se le fosse stata fornita l’informazione della Sindrome di Down di cui era affetto il feto.
Inoltre la Corte d’Appello avvalorava quanto emerso dalla relazione tecnica ossia che non vi era nel caso specifico una situazione di rischio specifico tale da imporre – o anche solo consigliare – l’amiocentesi o la villocentesi, e pur se fosse stata eseguita l’ecografia morfologica della 24° settimana non sarebbero emerse anomalie significative.
La coppia allora si decideva a proporre ricorso per Cassazione che si concludeva con sentenza n° 24220 dl 27 novembre 2015.
La Suprema Corte, a differenza delle precedenti pronunce, ha ritenuto fondati i motivi di impugnazione dei precedenti rigetti della domanda risarcitoria, nella parte in cui si riteneva violata la libertà di autodeterminazione della donna a causa della violazione dell’obbligo di informazione da parte del medico.
“[…] in forza del contratto stipulato con la gestante, il medico avrebbe dovuto mettere a sua disposizione tutte le conoscenze, non solo per consentire una gravidanza serena, ma anche per prevenire/impedire la nascita di un figlio affetto da patologie, che lo stesso Dottore, nel costituirsi in giudizio in primo grado, ava dedotto di avere interrogato la gestante sull’atteggiamento che avrebbe assunto in caso di malformazioni fetali e di averla informata di tutti i possibili mezzi per diagnosticarle preventivamente; […]”
La Corte di Cassazione stabiliva pertanto tutto il contrario delle Corti territoriali precedenti in quanto muoveva da quanto dichiarato dal medico ossia di aver parlato con la gestante e di aver avuto conoscenza della sua intenzione di interrompere la gravidanza in caso di malformazioni del feto e di non aver svolto tutti gli esami possibili per stabilire lo stato di salute del nascituro.
Anzi, il medico avrebbe dovuto spiegare che gli esami quali ad esempio l’amiocentesi erano necessari per poter stabilire quale decisione adottare in merito al proseguimento o meno della gravidanza; egli invece si è limitato a informare la donna sui rischi che tali esami avrebbero potuto comportare.
Ciò ha ingenerato nella donna timori di danni al feto e non ha potuto determinare liberamente la sua scelta in merito.
La Suprema Corte è pertanto giunta alla conclusione che tale condotta del medico abbia limitato la libertà ed il diritto di autodeterminazione della donna, e si è espressa nei seguenti termini:
“[…] Va infatti tenuto presente che il diritto all’autodeterminazione è diverso dal diritto alla salute e che vanno trattate diversamente le fattispecie in cui il danneggiato lamenti la lesione del primo e/o la lesione del secondo; e, a maggior ragione, le fattispecie come quella in esame in cui lamenti che dalla lesione del diritto all’autodeterminazione in tema di scelte diagnostiche sia conseguita la lesione di altro diritto, quale quello di interrompere volontariamente la gravidanza, o di autodeterminazione in merito alla scelta da prendere in merito a siffatta interruzione. […]”
Inoltre la Corte ha ribadito un ulteriore principio già affermato ossia quello della necessaria informazione del paziente da parte del medico di potersi recare anche in altre strutture più specializzate al fine di procedere ad esami ancor più completi e approfonditi laddove il sanitario non riesca a giungere ad una indicazione completa in merito alla presenza o meno di malformazioni
“Trattasi di un assunto che si scontra con un’affermazione già presente nella giurisprudenza di legittimità per la quale, in tema di responsabilità medica, il sanitario che formuli una diagnosi di normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali che non ne hanno consentito, senza sua colpa, la visualizzazione nella sua interezza, ha l’obbligo d’informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, in vista dell’esercizio della gestante di interrompere la gravidanza, ricorrendone i presupposti”.
E nelle righe immediatamente successive indica che proprio nel caso di specie il ginecologo avrebbe dovuto agire in tal senso perché era a conoscenza della volontà della donna di interrompere la gravidanza in caso di malformazioni del nascituro!!
“Nella specie il principio è vieppiù applicabile perché i ricorrenti assumono di aver manifestato al proprio medico di fiducia che non avrebbero “accettato” la nascita di un figlio affetto da gravi patologie e questo sarebbe stato riconosciuto negli scritti difensivi del convenuto”
Ed infine la Corte conclude che il consenso ad eseguire un determinato trattamento sanitario dev’essere acquisito dal medico in modo completo ed effettivo con riferimento a tutte le possibilità offerte dalla scienza medica ed è compito del medico individuare gli esami diagnostici con cui procedere e non può esimersi da ciò solo prospettando al paziente alti costi o alti rischi poiché tale valutazione non gli compete!
“Il consenso ad eseguire ovvero, come nella specie, a non eseguire un determinato intervento medico o chirurgico va acquisito previa informazione completa ed effettiva delle possibilità offerte dalla scienza medica in relazione alla situazione del paziente ed ai suoi bisogni di cura o assistenza.
Compete al sanitario l’individuazione degli esami diagnostici e delle terapie (o dell’intervento chirurgico) da praticare nel caso concreto, ma – contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di merito – egli non può esimersi dal prospettare la possibilità, nota alla scienza, di esami o terapie (o interventi) alternativi o complementari, pur se comportanti dei costi e dei rischi maggiori, essendo rimessa al paziente la valutazione dei costi e dei rischi, previa adeguata prospettazione degli uni e degli altri da parte del medico”