Controlli più severi con visita fiscale dal primo giorno e anche nei festivi, sanzioni se non c’è effettiva comunicazione al datore di lavoro e se non si invia il certificato medico e possibilità di perdere anche tutta la retribuzione prevista per il periodo di malattia se si è assenti per 3 volte alla visita fiscale. Ma un altro lavoro si può svolgere? Sì, se il lavoratore prova che questo lavoro: 

a) è compatibile con la malattia che invece gli impedisce di svolgere la sua prestazione contrattuale; 

b) non pregiudica o ritarda la sua guarigione implicando inosservanza al dovere di fedeltà; 

c) non evidenzia una simulazione di infermità; d) non viola il divieto di concorrenza.

Così si è pronunciata la Corte di Cassazione nella sentenza n. 15989 del 1/08/2016 ribadendo un principio già enunciato in precedenza: “… è noto come non sussista per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante tale assenza, un’attività lavorativa in favore di terzi… Sicché non si configura una giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi e svolgere un lavoro diverso o abbia compromesso e ritardato la propria guarigione strumentalizzando così il suo diritto al diritto al riposo per trarne un reddito…”.

Ma vediamo nei dettagli il caso. Una donna con diagnosi di sindrome ansioso depressiva procurata dall’ambiente di lavoro si assenta per malattia per un mese, durante il quale svolge un’attività lavorativa domestica (5 giorni a settimana, 4 ore al giorno). Licenziata per questo motivo, la donna ricorre alle vie legali e la Corte di Appello di Roma ne dichiara illegittimo il licenziamento, condannando peraltro la datrice di lavoro all’immediata reintegrazione della lavoratrice e al risarcimento del danno in suo favore. Questa impugna la sentenza e la Suprema Corte la cassa, rinviando per il superiore accertamento e per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.                                                                                                         

La Cassazione ha annullato la sentenza non perché abbia riscontrato un giusto motivo di licenziamento, ma poiché “… la Corte d’appello si è sottratta all’accertamento in concreto, di sua spettanza, in ordine all’effettiva prestazione di attività lavorativa della donna, alla qualità e consistenza di tale prestazione, alla natura della patologia da cui era affetta e alla compatibilità di questa con l’attività lavorativa”. Infatti non è stato condotto alcun effettivo accertamento sulla prestazione lavorativa, sulla sua natura e sulla compatibilità con la malattia della donna e risulta integrato l’omesso esame di fatti storici, chiaramente individuati e decisivi per il giudizio. Il tenore astratto e meramente probabilistico della pronuncia, non ancorata ad un positivo riscontro dei fatti, ne rivela il carattere di motivazione meramente apparente, ben sindacabile in sede di legittimità nella sua riduzione al “minimo sindacale”. Tutto da rifare, tenendo però conto dei principi enunciati dagli ermellini.